La carriera di un leader, nelle piccole aziende come nelle grandi multinazionali, in passato era legata solo alle sue performance. I risultati determinavano la scalata della gerarchia aziendale. Il tema era (ed è) che scalando l’organigramma si rispondeva sempre più del lavoro e dei risultati dei propri collaboratori e la gestione delle risorse umane diveniva l’inatteso banco di prova delle proprie capacità manageriali.
Quando si prendeva coscienza di questo, il modello di leadership che molto spesso si sceglieva di adottare era quello di chi, forte della propria esperienza e delle proprie conoscenze, aveva sempre la risposta pronta per aiutare i propri dipendenti. Insomma, l’autorità derivava dal fatto che il capo, o la capa, ne sapeva (e ne aveva viste) di più. Oggi è irrealistico aspettarsi che i leader abbiano tutte le risposte.
Le organizzazioni sono semplicemente troppo complesse perché possano essere governate su queste basi. Quindi, il “nuovo” leader deve imparare ad ottenere risposte, anzi, ad ottenere le migliori risposte possibili dai suoi collaboratori. Per fare questo deve imparare a modificare il proprio modello d’interazione in azienda.
Oggi, essere un leader significa entrare in relazione con le persone e ispirarle a fare del loro meglio, aiutandole a crescere. Per un leader non si tratta più di accettare la sfida di dover rispondere a tutte le domande, piuttosto è il leader che sfida le persone a trovare da sole le risposte che richiedono.
Pur conservando ogni imprenditore e manager un proprio stile, in quanto leader dovranno sviluppare una pratica che richiede precise conoscenze e competenze. Partiamo dalle due competenze fondamentali:
- saper porre domande;
- saper ascoltare.
Cosa vuol dire “saper porre domande”? Il dialogo è un processo, quindi è una relazione che si concretizza nel suo divenire e prende forma nel tempo.
La “mossa d’apertura” che un leader deve metter in atto dev’essere finalizzata a dare spazio al dipendente e, in genere, si avvia questo processo ponendo una domanda a risposta aperta.
La chiave è dimostrarsi ricettivi verso la persona con la quale si parla ed evitare presunzioni che limitino, inutilmente, la conversazione.
Nelle conversazioni tra leader e collaboratore è fondamentale dedicare tutto il tempo necessario alle fasi iniziali e resistere all’impulso di saltare in avanti, dove il processo si sposta dal porre domande aperte all’utilizzo della propria autorità come leader, per mettere in luce determinati problemi.
Più tempo un leader dedica alla pura indagine, più è probabile che la conversazione “sfidi” il suo collaboratore a proporre le sue soluzioni creative, facendo emergere la conoscenza unica che ha acquisito dalla sua vicinanza al problema.
E per quanto riguarda l’ascolto?
È importante capire la differenza tra sentire e ascoltare. Il “sentire” riguarda l’udito, ossia un processo cognitivo che avviene internamente: assorbiamo il suono, lo interpretiamo e lo comprendiamo.
L’ascolto è un processo d’interiorizzazione del contenuto che avvicina chi parla e chi ascolta.
Ascoltare in un contesto lavorativo richiede un contatto visivo significativo, più di quanto di solito si dedichi a una conversazione casuale. Ciò garantisce di acquisire quanti più dati possibili sull’altra persona – espressioni facciali, gesti, tic – e trasmette un forte senso di interesse e coinvolgimento.
Un corretto rapporto tra leader e collaboratore è fondamentalmente incompatibile con il multitasking, quindi è bene spegnere il telefono, chiudere il pc portatile e trovare uno spazio dedicato in cui non si sarà interrotti.
Un leader non confeziona soluzioni pronte all’uso, ma le costruisce con il “materiale” portato da tutti i suoi collaboratori.
Il risultato finale sarà il con-dominio della soluzione e, pertanto, lo stimolo ad un lavoro corale per la sua attuazione.