La definizione sociologica del termine “cultura” identifica nei simboli, nel linguaggio, nelle credenze, nei valori e nei prodotti (artefatti) le componenti basilari di ciò che identifica una società. Quindi, possiamo dire, riducendo ulteriormente il concetto, che la cultura si esprime, da un lato, attraverso le idee e i simboli che le veicolano, dall’altro, attraverso la produzione (artefatti, oggetti materiali) che la concretizza. Quindi, l’essenza della cultura è la sintesi coerente degli ideali e dei prodotti materiali di una società. È possibile esportare questa definizione in ambito aziendale? Secondo me, sì.
La cultura di un’organizzazione consiste in credenze e valori condivisi, stabiliti dai leader e poi comunicati e rafforzati attraverso vari metodi, dando forma alle percezioni, ai comportamenti e alla comprensione dei dipendenti. La cultura organizzativa definisce il contesto di tutto ciò che fa un’impresa. La cultura è il cuore di un’azienda e definisce la modalità con la quale i leader e i dipendenti interagiscono e lavorano insieme. Una leadership inclusiva è tale se il clima che si respira è inclusivo. Non sono solo i leader a dover dimostrare di essere inclusivi e attenti al valore della diversità, anche il personale, a prescindere da ruoli e funzioni, deve sentirsi investito della responsabilità di farsi portatore della cultura che invoca per l’azienda. Reclamare culture più aperte, che incoraggino le persone a raggiungere il loro pieno potenziale, ha poco senso se i contributi individuali non contribuiscono a liberare questo potenziale. I singoli giocano un ruolo chiave nella creazione di culture del lavoro inclusive, in cui i dipendenti sentano che le loro idee e le loro prospettive non solo sono accettate, ma anche incentivate.
Negli anni ’80, lo psicologo Edgar Schein della Sloan School of Management ha sviluppato un modello per la comprensione e l’analisi della cultura organizzativa. Schein ha diviso la cultura di un’organizzazione in tre livelli distinti: artefatti, valori e presupposti. È interessante l’inversione dell’ordine rispetto alle più accreditate scuole sociologiche che, come ho detto all’inizio, dispongono le componenti partendo dalla parte astratta e non da quella concreta.
Per Schein gli artefatti sono gli elementi evidenti di un’organizzazione. Sono tipicamente le cose che tutti possono rilevare, come l’arredamento e la disposizione dell’ufficio, le norme sull’abbigliamento, le battute all’interno e i “mantra”. Fanno parte degli artefatti anche gli stessi prodotti aziendali e la qualità che hanno o non hanno. La precisione dei report, l’efficacia delle presentazioni PowerPoint, la pulizia dei bagni, la mensa, il tono di voce del personale, ecc. Gli artefatti possono essere facili da osservare ma a volte difficili da capire, soprattutto se l’analisi di una cultura rimane superficiale. Poi ci sono i valori, quelli spesso esposti in bacheca e in sala riunioni insieme alle norme dell’azienda. I valori influenzano il modo in cui i membri interagiscono e rappresentano l’organizzazione. Spesso, i valori sono ribaditi durante gli incontri allargati con tutto il personale, ma ricorrono anche nei discorsi quotidiani. Ma cosa sono i valori? Sono i principi cui l’azienda si ispira in tutte le sue manifestazioni. Sono i riferimenti cui proprietà, dirigenza e personale fanno, coscientemente, riferimento. I presupposti sono il fondamento dei valori, quindi degli artefatti, quindi della cultura organizzativa. Sono le credenze e i comportamenti così profondamente radicati che a volte risultano invisibili. Essi sono l’essenza della cultura, il filo conduttore che unisce in una consequenzialità logica valori e artefatti. Passano attraverso uffici e corridoi, senza che nessuno li pronunci. Sono l’espressione autentica di ciò che sta dietro la scelta dei valori.
Fin ora abbiamo visto quali siano i “fondamentali” della cultura aziendale, ma, ovviamente, i singoli ingredienti si “coagulano” per diventare “cultura” con modalità varie e diversificate. Altrimenti, una volta definiti concettualmente i fondamenti della cultura aziendale, tutte le aziende avrebbero la stessa cultura.
Secondo Robert E. Quinn e Kim S. Cameron dell’Università del Michigan, ci sono quattro tipi di cultura organizzativa: quella detta del Clan, quella ispirata all’Adhocrazia, quella orientata al Mercato e quella che rispetta ed enfatizza la Gerarchia.
Le culture orientate ai clan sono di tipo familiare, con un’attenzione particolare al mentoring, al “nutrimento” professionale e al “fare le cose insieme”. Hanno nell’aspetto formativo del lavoro la loro cifra essenziale. Enfatizzano il valore della squadra e della corretta ripartizione dei meriti. Apparentemente, sembrerebbe il paradiso, ma non è sempre così. A volte, queste organizzazioni perdono il contatto con il mercato, non prestano sufficiente attenzione alle scadenze, hanno livelli di tolleranza che disincentivano il continuo miglioramento del personale.
Poi ci sono le culture orientate all’adhocrazia. Il termine adhocrazia è un neologismo che deriva dall’unione dell’avverbio latino ad hoc e del suffisso greco crazia. Il termine fu coniato negli anni ’60 da Warren Bennis e rappresenta un concetto fondamentalmente, opposto a quello di burocrazia. Un’adhocrazia è un’organizzazione nella quale nessuno riveste un ruolo definito. È un’organizzazione “fluida”, nella quale i singoli individui sono liberi di esercitare il proprio talento in base alle diverse esigenze aziendali. Sono organizzazioni dinamiche e imprenditoriali, con un’attenzione particolare all’assunzione di rischi, all’innovazione e al “fare le cose prima di tutto”. Anche in questo caso, esistono una serie di controindicazioni, che non andremo ad analizzare in questa sede.
Le culture orientate al mercato sono orientate ai risultati, con un’attenzione particolare alla concorrenza, al raggiungimento degli obiettivi e al “portare a termine il lavoro”. Qui la centralità dell’individuo è decisamente sfumata e tutti si confrontano solo sulla base di dati, statistiche, report e altro materiale raffigurabile con qualche diagramma.
Le culture orientate alla gerarchia sono strutturate e controllate, con un’attenzione particolare all’efficienza, alla stabilità e al “fare le cose per bene”. Sono le più semplici da comprendere, perché, a tutt’oggi, sono le più diffuse.
Non esiste una cultura giusta o sbagliata. Tutte le culture promuovono alcune forme di comportamento e ne inibiscono altre. Alcune sono adatte ad imprimere rapidi cambiamenti, altre servono a dare una maggiore dimensione di continuità. Per esempio, Quinn e Cameron associano le due ultime culture (Gerarchia e Mercato) alla stabilità e le prime due (Clan e Adhocrazia) alla flessibilità e adattabilità. Una cultura della Gerarchia, basata sul controllo, porterà principalmente a un cambiamento incrementale, mentre una cultura centrata sull’Adhocrazia porterà più tipicamente a un cambiamento radicale.
La cultura giusta è quella che meglio si adatta ai problemi e alle sfide che un’organizzazione affronta in un dato momento. Il che ci dice che la cultura aziendale è in continuo movimento, è l’espressione della dinamica che esiste (o non esiste) in un’azienda.