L’Italia è il paese con il terzo più alto disallineamento al mondo tra i campi di studio scelti dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro (dopo Corea del Sud e Inghilterra/Irlanda del Nord) e uno di quelli in cui tale disallineamento comporta una più alta penalizzazione economica. Il nodo della formazione si è perciò rivelato essenziale nell’analisi triennale condotta da J.P. Morgan e Bocconi e mirata a investigare le radici e le conseguenze dello skill mismatch nel mercato del lavoro italiano, nell’ambito del progetto New Skills at Work, i cui ultimi risultati sono stati presentati oggi in un workshop.
Transizione università lavoro
Anche se l’Italia registra la più bassa percentuale di laureati in Europa, in particolare, questi non sembrano godere di un vantaggio nel mercato del lavoro dovuto alla loro scarsità. I tassi di disoccupazione dei laureati sono comparabili a quelli dei diplomati e sono molto più alti di quelli dei paesi dalla struttura economica simile. Negli ultimi 15 anni, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25-39 ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%. Alla base di questa situazione c’è anche un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali per le diverse discipline, sostiene Massimo Anelli, economista dell’Università Bocconi e autore di un policy brief al riguardo.
Anelli prende la Germania come punto di riferimento per le somiglianze nella struttura produttiva. Anche la Germania registra una percentuale di laureati nettamente più bassa della media europea e inferiore di 10-15 punti percentuali rispetto a quella di Francia e Spagna, ma la composizione per disciplina differisce nettamente da quella italiana. La Germania laurea molti più giovani in informatica, ingegneria ed economia e management, mentre l’Italia doppia la Germania per laureati in scienze sociali e in discipline artistiche e umanistiche.
Utilizzando un database unico, sviluppato grazie al programma VisitInps scholars, che gli ha consentito di seguire il percorso lavorativo di tutti i laureati di una grande città italiana fino a 25 anni dopo la laurea, Anelli ha calcolato il ritorno economico della scelta universitaria (depurandolo dalle capacità degli studenti e dalla loro condizione socio-economica) e ha trovato che le lauree che rendono di più (tra il 70 e il 100% più di una laurea umanistica) sono, nell’ordine, economia e management, giurisprudenza, medicina e ingegneria. A parte medicina, quindi, sono proprio le facoltà che registrano il deficit di laureati più alto rispetto alla Germania.
Il policy brief si conclude con un suggerimento. Seguendo una metodologia simile a quella utilizzata da Anelli, sarebbe possibile costruire una scheda pubblica di ogni singola facoltà, con indicazioni sul reddito atteso, come già accade in una realtà più complessa, come quella degli Stati Uniti.
Scelta della scuola media superiore
Un secondo rapporto di Pamela Giustinelli e Nicola Pavoni analizza il processo di scelta della scuola superiore. Analizzando i risultati di due survey, gli autori concludono che le famiglie, nella scelta della scuola superiore, sono troppo focalizzate su aspetti di breve termine (il gradimento dello studente, l’impegno necessario, la qualità percepita dell’istituto) e troppo poco sugli aspetti di lungo periodo, come le prospettive in termini di mercato del lavoro o accesso all’università.
In generale, la conoscenza delle scelte possibili da parte di studenti e genitori all’inizio dell’ultimo anno di scuole medie inferiori è piuttosto limitata, e il processo di raccolta delle informazioni tende a concentrarsi su quelle che, già all’inizio, erano le alternative preferite. Tali alternative dipendono molto dal background socio-economico delle famiglie e, in parte, dai risultati ottenuti dallo studente. In particolare, gli studenti nelle condizioni più disagiate sembrano prendere in considerazione pochissime alternative. «E quando l’alternativa inizialmente preferita non è quella ottimale per lo studente», scrivono gli autori, «un percorso di raccolta così concentrato impedisce alle famiglie di ottenere consapevolezza di alternative più adatte».
Le indicazioni pratiche che emergono dallo studio sono due: primo, raggiungere le famiglie con informazioni su tutti i possibili percorsi di studio e, secondo, farlo il più presto possibile, prima che si avvii il processo di raccolta di informazioni concentrato sulle poche alternative preferite.
Mercato del lavoro e qualifiche
Nei due anni precedenti, il progetto New Skills at Work ha dapprima delineato le effettive dimensioni dello skill mismatch in Italia, partendo dalle distorsioni di un mercato del lavoro che registra fortissime disuguaglianze in termini di età, genere, area geografica e titolo di studio. Nel 2015 il profilo più avvantaggiato (maschio, 40-44 anni, residente al Nord, laureato) aveva il 50,3% di possibilità di lavorare in più rispetto al profilo più svantaggiato (donna, 20-24 anni, residente al Sud, con licenza media o titolo inferiore). La caratteristica di gran lunga più penalizzante (quella che spiega il 56% della differenza) si rivela essere l’età.
Già da questa analisi risultava particolarmente critica la transizione tra scuola e mondo del lavoro per due ragioni: la mancata corrispondenza tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle apprese tra i banchi e il fatto che i titoli rilasciati dal sistema scolastico non risultano informativi delle effettive competenze delle persone.
Il risultato della mancata corrispondenza è che i ragazzi tra i 15 e i 24 anni costituiscono il 6,5% della forza lavoro, ma ben il 20,3% dei disoccupati di lungo periodo, mentre la differenza tra i tassi di disoccupazione dei giovani e degli adulti, tra il 2007 e il 2015, è salita dal 14% al 31%.
Mentre la percentuale di italiani che lavorano in posizioni non adatte al loro titolo di studio è molto alta, quando si analizzano le competenze anziché le qualifiche il quadro cambia. Il 76% dei sovraqualificati e il 79% dei sottoqualificati ricopre una posizione consona alle proprie reali competenze. La percentuale di over-skilled (14%) e under-skilled (9%) risulta così in linea con quella del resto del mondo.
Imprenditori
La formazione si è dimostrata un elemento critico anche nelle analisi svolte nel secondo anno del progetto, incentrate sulla classe imprenditoriale. In Italia, come negli Stati Uniti, gli imprenditori più istruiti operano in settori più avanzati, reclutano collaboratori più preparati e li pagano meglio (in media gli imprenditori laureati pagano i loro dipendenti il 6,9% in più degli imprenditori con un livello di formazione più basso). In Italia, però, gli incentivi economici a intraprendere un’avventura imprenditoriale, per i più istruiti, sono limitati: qui un imprenditore laureato guadagna mediamente il 36% in più di uno diplomato, mentre negli Stati Uniti la differenza è del 138%.
Negli Stati Uniti, a differenza che in Italia, una quota significativa di imprenditori vanta addirittura un diploma post-universitario, che si traduce in guadagni doppi rispetto a quelli degli imprenditori laureati e quasi cinque volte più alti di quelli degli imprenditori con diploma di scuola superiore (in Italia, gli imprenditori laureati guadagnano solo il 66% in più di quelli che hanno completato le sole scuole dell’obbligo). E, sebbene i più istruiti guadagnino di più in ogni ruolo, negli Stati Uniti il premio corrispondente a una maggiore istruzione è molto più alto per gli imprenditori che per i dipendenti.
I risultati suggeriscono la necessità di aumentare il premio per l’istruzione degli imprenditori in Italia, adottando tre ordini di provvedimenti: eliminare le barriere che impediscono ai più istruiti di sfruttare appieno le loro capacità (qualche progresso in questa direzione è stato fatto, grazie al decreto sulle startup innovative); sviluppare un ambiente finanziario meno incentrato sulle banche, dal momento che la crescita delle startup tecnologiche necessita di seed e venture capital e di private equity; arricchire i percorsi formativi in modo da coltivare le capacità imprenditoriali di chi studia.
Nelle imprese familiari, in particolare, i leader con un livello di istruzione almeno universitario sono leggermente meno (64% contro 67%) che in quelle non-familiari, ma la differenza diventa significativa se si restringe l’indagine alle imprese familiari chiuse (quelle in cui proprietà, consiglio di amministrazione e top management sono appannaggio esclusivo della o delle famiglie controllanti): in questo caso la quota di leader con istruzione universitaria si ferma al 50%. E dal momento che i dati evidenziano una correlazione tra il livello di formazione del top management e i risultati aziendali, l’analisi evidenzia una debolezza delle imprese familiari chiuse.
«Siamo orgogliosi di avere portato New Skills at Work in Italia e ringraziamo il team di accademici e ricercatori Bocconi per il lavoro svolto. La ricerca condotta in questi 3 anni di analisi ha consentito di comprendere appieno quanto il problema dello skills gap incida sui livelli di produttività, innovazione e occupazione della nostra economia e di quanto sia importante che istituzioni, scuola e imprese collaborino per realizzare una migliore corrispondenza tra le competenze richieste dal mondo dell’impresa e quelle prodotte dalla formazione scolastica», ha commentato Francesco Cardinali, Senior Country Officer di J.P.Morgan in Italia.