Il pesce puzza dalla testa. Un proverbio ad alto tasso di managerialità. In particolare quando oggetto delle nostre dissertazioni sono le risorse umane. Voglio rendere la dimensione, la portata di quanto rivoluzionario sia questo proverbio, parlandone a proposito dell’evento che può connotare nel modo più negativo possibile un rapporto di lavoro: il licenziamento. Sia individuale che collettivo. Potrete intervistare imprenditori o responsabili hr: vi diranno che, quando la soluzione è il licenziamento, il male è il dipendente. Ogni responsabilità sarà in capo a lui. E gli stessi gioiranno se il licenziamento si concluderà in modo positivo, sentenza favorevole o mancata impugnazione che sia.

Io, però, nel caso specifico del licenziamento, ho una prospettiva completamente diversa: è, per quanto mi concerne, l’adagio che dà l’incipit a questo articolo, è la mia visione manageriale: il licenziamento è un fallimento per l’intera organizzazione. E poco conta se vinceremo la battaglia con il dipendente. Abbiamo perso la guerra dell’organizzazione perché abbiamo sbagliato con il collaboratore. La colpa è tutta dell’azienda, un difetto manageriale. A parte costi e tempo, la nostra organizzazione ha fallito la sua missione, ovvero l’individuazione della risorsa migliore possibile nel tempo, per l’incarico definito in capo al dipendente licenziato. Il nostro processo organizzativo relativo alla risorsa umana impegnata si è rivelato carente: iniziato nella fase di selezione, proseguito con la fase dell’inserimento e sviluppato nella fase gestione della persona da qualche parte ha fatto acqua. È FALLITO!

Metodi di selezione superficiali? Mancata definizione delle mansioni? Mancata o inesatta definizione del contenuto dell’apporto? Un inserimento approssimativo o carente di attenzione? Una gestione distratta, incapace di cogliere i segnali di un disagio, un problema?

E al peggio non vi è fine: se il rapporto si conclude senza una condanna alla reintegrazione, o il pagamento di una somma importante… come si dice? Passata la festa, gabbato lo santo. Ricominciamo da dove abbiamo finito. Non ci prenderemo la briga di capire dove è la falla della nostra organizzazione. Non ci porremo all’interno di un processo di miglioramento teso ad eliminare i costi occulti della malaorganizzazione. Il licenziamento ha avuto esito positivo. Ripartiamo da lì. Purtroppo, però, in questo modo non miglioriamo il nostro microcosmo aziendale.

È dall’analisi dei motivi (non limitandoci ai soli casi di licenziamento, ma ad ogni circostanza di “abbandono” di un collaboratore) che noi possiamo migliorare la nostra organizzazione e la filiera delle risorse umane; da questa ripartenza dobbiamo capire dove risieda l’anomalia; e l’analisi porterà certamente alla migliore possibilità di sviluppo del nostro modello hr attraverso l’interpretazione il più possibile corretta di queste fasi: selezione, inserimento, assegnazione di un compito, un obiettivo, la valutazione, la gestione dei cambiamenti, delle politiche retributive. Dedicando attenzione a questi processi, lindi dalla ricerca di una perfezione inesistente, noi possiamo evitare di perdere le nostre risorse. Perché l’oggetto sociale delle aziende tutto è, ma non la perdita dei collaboratori. Ora la creazione di competenze per la gestione di queste fasi, senza avere intuizioni geniali, è sicuramente possibile attraverso la formazione del management dedicato alle risorse umane. Formazione che a vari livelli potrebbe coinvolgere hr specialist e imprenditori. E il mondo è pieno di questi moduli, più o meno completi, pragmatici, interessanti e… assolutamente coerenti: formazione alla conoscenza di competenze soft per ruoli dedicati.

Piccola digressione. Nella mia esperienza il gestore delle risorse umane deve sempre privilegiare un elemento importante della relazione: l’ascolto. E spesso l’imprenditore e il responsabile hr non sono nelle condizioni di ascoltare tutti. O meglio, di intercettare tutti i sussurri che potrebbero evitare le criticità prodromiche alle varie modalità di abbandono. In questo senso credo che non vadano dimenticate alcune figure della filiera della gestione delle hr e la necessità di rinforzare le loro competenze in questo senso: in primis i capi diretti, i superiori, intervenendo con un minimo di formazione/informazione alla gestione di strumenti per le risorse umane. Ma non solo. Spesso ci dimentichiamo degli uffici amministrativi del personale, quelli delle strisciate infinite della calcolatrice, della rilevazione delle presenze, delle buste paga. Quelli che i gestori delle risorse umane evitano ritenendoli un mestiere diverso ed occasionalmente connesso alle competenze soft della gestione hr.

La busta paga, invece, è un link prezioso con la risorsa umana e, con uno sforzo minimamente eversivo, al pari della individuazione delle responsabilità in capo a chi comanda, per ogni fallimento con le persone in azienda, esiste un’altra visione eversiva per la gestione delle leve necessarie a consolidare il successo nella permanenza degli uomini in azienda: oltre alla valorizzazione dei capi diretti, la valorizzazione della busta paga e del suo interprete, l’amministrativo del personale. Una visione diversa del ruolo, che porta a dedicare una formazione specifica per gestione delle risorse umane in capo agli uffici delle buste paga. Leggere, ai fini della gestione dei collaboratori, i dati delle ferie, degli straordinari, delle malattie, delle retribuzioni e degli inquadramenti, l’interpretazione dei costi, la conoscenza degli sgravi applicata alle modalità di assunzione. E, perché no, come ascoltare e percepire le sensazioni delle persone nel semplice gesto di consegnare le buste paga.

Diamo utilità e dignità a questo ruolo, nell’ottica di arricchimento delle mansioni finalizzata ad intercettare le crisi dell’azienda e a migliorare la filiera della gestione e del consolidamento dei rapporti. Insieme al capo o superiore, un’altra risorsa da dedicare ai componenti della linea, anche la più lontana. Partendo sì dal basso, ma in questo garantendo una capillarità di azione efficace.

Gabriele Arveda