In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, ben il 75,2% delle imprese con oltre 3 addetti, pari a oltre 777mila aziende, è controllata da una persona fisica o da una famiglia, e oltre un quinto di queste (20,5%) tra il 2013 e il 2023 ha affrontato o affronterà il passaggio generazionale[1].
Si tratta di una fase delicata per le imprese italiane in quanto alla terza generazione sopravvive solo il 15-20%[2]. Eppure, secondo l’analisi di Studio Temporary Manager S.p.A. – società specializzata nei servizi di temporary management – condotta su un campione di manager (C-Level, quadri direttivi, ecc.) che ha vissuto almeno un passaggio generazionale negli ultimi 10 anni[3], solo il 15% degli imprenditori ha pianificato con netto anticipo il passaggio, indirizzando i familiari verso percorsi in linea con la posizione che andranno a ricoprire. Inoltre, gli imprenditori nella loro scelta hanno cercato di dare precedenza agli equilibri familiari (per il 69% dei manager) piuttosto che puntare alla competitività dell’impresa.
Risultato? La nuova figura, spesso non adeguata al nuovo ruolo in azienda (per il 56% del campione), ha ottenuto un giudizio medio come “capitano” che sfiora la sufficienza (6 su 10), un valore ben lontano dai predecessori (7,5 su 10). E questo ha avuto inevitabilmente un impatto sulle performance aziendali: dopo due anni dal passaggio del testimone, un terzo ha indicato un calo del fatturato e oltre quattro su dieci (42%) ha visto un peggioramento nel rapporto e nella gestione dei dipendenti. Ma c’è anche chi ha dovuto cessare l’attività (9%). Non è un caso, infatti, che il 90% del campione ritiene fondamentale l’aiuto di un professionista esperto per gestire al meglio il passaggio generazionale.
Tuttavia, la situazione cambia radicalmente quando i familiari eredi ricevono una formazione in linea con il loro nuovo ruolo, come fare esperienze in altre aziende o ricoprire incarichi non apicali in tutte le divisioni aziendali per conoscere a fondo l’impresa: in questo caso, secondo l’83% dei manager, la nuova figura si è dimostrata adatta a prendere le redini della società, con il giudizio che eguaglia quello dei predecessori (7,2 vs 7,5). Di conseguenza, anche le performance dell’impresa ne traggono beneficio: per l’87% dei manager, infatti, la situazione aziendale a livello generale è stabile o migliorata (solo per il 13% è peggiorata), così come il fatturato, dove solo il 16% ha avuto un calo. Migliora anche il rapporto e la gestione dei dipendenti, ma soprattutto il salto di qualità viene dal più alto livello di innovazione introdotto dalle nuove figure, indicato da quasi sei manager su dieci.
Perché gli imprenditori lasciano? La motivazione principale è l’età (per il 47% del campione), che avviene mediamente a 70 anni. Ma c’è anche chi lo ha fatto per una questione di stanchezza generale (30%), su pressione dei figli/familiari (24%), costretto da problemi di salute (18%) o da morte prematura (6%).
Spazio quindi ai “giovani”. Ma è sempre così? La realtà è ben diversa. Difficilmente il neo “pensionato” lascia totalmente la guida dell’azienda al suo successore: secondo i manager, il 40% degli imprenditori ha continuato a entrare nelle scelte aziendali in modo importante e il 39% in modo saltuario. Forse a causa della scarsa fiducia nell’erede, solo poco più di uno su cinque si fa completamente da parte.
Le ragioni dell’inadeguatezza vanno però ricercate non solo nelle capacità imprenditoriali dei successori, ma anche a monte, ovvero nella mancata pianificazione del passaggio del testimone che deve essere preparata e studiata attentamente con largo anticipo, sin dagli studi. E su questo emergono le prime lacune: solo il 15% degli imprenditori ha pianificato con netto anticipo un piano di successione, indirizzando i familiari verso percorsi in linea con la posizione che andranno a ricoprire. E solo il 41% si affida a manager esterni esperti, mentre in oltre la metà dei casi viene gestito direttamente dall’imprenditore senza l’aiuto di persone esterne (39%) o al massimo con il supporto di una persona di fiducia ma non esperta (16%).
Se si considerano le esperienze lavorative, infatti, quasi sei manager su dieci (57%) bocciano il percorso dei figli: il 71% ha infatti avuto una formazione solo all’interno dell’impresa di famiglia, precludendosi una visione strategica più ampia del mercato, e il 60% ha ricoperto da subito ruoli apicali, senza avere nessuna competenza in materia. Stesso discorso per il livello d’istruzione, non in linea per il 46% del campione.
La situazione si complica quando ci sono più familiari come successori. Per quasi sei manager su dieci ci sono stati problemi nella gestione del passaggio di consegne, soprattutto per divergenze di visione con l’ex imprenditore.
Anche chi sta vivendo un passaggio generazionale in questo momento ha delle perplessità: ben l’86% dei manager e dei dipendenti è infatti preoccupato in quanto manca una pianificazione e un percorso di crescita adeguato (54%) o perché il successore non è all’altezza (32%). Per questo, il 90% del campione ritiene fondamentale l’aiuto di un professionista esperto per gestire al meglio il passaggio generazionale incerto. Quali qualità deve avere un professionista del passaggio generazionale? In assoluto al primo posto skills psicologiche, di coaching, tutoring e mentoring, indicate dal 63% del campione. Seguono esperienza specifica di passaggio generazionale (47%), equidistanza (37%), ovvero non deve aver mai avuto rapporti precedenti con nessun membro della famiglia, e conoscenza approfondita del business (32%).
“In questi ultimi mesi si parla molto di caro energia e inflazione, tematiche che hanno un impatto importante sulle nostre imprese – afferma Gian Andrea Oberegelsbacher, Amministratore Delegato di Studio Temporary Manager. Non dobbiamo però dimenticare che il nostro tessuto imprenditoriale è costituito prevalentemente da imprese familiari, che si trovano costantemente a dover affrontare un tema spinoso come quello del passaggio generazionale. Ma a oggi sono ancora pochi gli imprenditori che comprendono l’importanza di un piano di successione che favorisca l’inserimento del familiare all’interno dell’organizzazione nel modo corretto. Così come l’utilizzo di manager esperti esterni che possano supportarli in questa fase delicata della vita aziendale, fondamentale per garantire la continuità aziendale e lo sviluppo delle imprese stesse. Dall’analisi emerge chiaramente una diretta correlazione tra formazione e performance aziendali: chi ha seguito un percorso corretto, come aver fatto esperienze in altre aziende, aver ricoperto nell’impresa familiare diversi ruoli non apicali e aver ricevuto un’istruzione adeguata, non solo ha eguagliato i propri genitori, ma ha portato ulteriore valore all’azienda.”
[1] Fonte: Istat http://dati-
[2] Fonte PMI, Il mensile della piccola e media impresa – IPSOA Editore
[3] Survey condotta on-line dalla società Studio Temporary Manager nel mese di febbraio 2023 su un campione di circa 300 manager (C-Level, quadri direttivi, ecc.)