Secondo un’indagine condotta su un campione omogeneo di imprese medio-grandi dall’Osservatorio Purpose in Action della School of Management del Politecnico di Milano, al suo esordio, il 62% dei manager sa esprimere correttamente il purpose della propria azienda (cioè la sua ragion d’essere più profonda, oltre il risultato economico), ma un buon 37% lo trova poco o per nulla chiaro. Analogamente, solo il 32% dei rispondenti dice che il purpose è stato formalizzato, ad esempio attraverso una dichiarazione (purpose statement), evidenziando come si sia ancora indietro nel percorso: la formalizzazione è più comune nelle quotate (49%) rispetto alle non quotate (25%) e nelle grandi aziende (39%) rispetto alle medie (25%). Eppure, si tratta di un passaggio-chiave. Codificare e integrare il purpose nelle pratiche aziendali conferisce un notevole vantaggio competitivo alle organizzazioni, poiché migliora le capacità gestionali: nelle aziende con un purpose formalizzato si è in media più efficaci nell’integrare purpose e innovazione (15%), purpose e strategia (16%), purpose e gestione delle risorse (17%).

“I risultati dell’indagine mostrano chiaramente che i manager delle aziende con un purpose formalizzato sono il 22% più efficaci nella capacità di rinnovamento strategico – commenta Josip Kotlar, direttore scientifico dell’Osservatorio insieme a Federico Frattini -. In altre parole, la formalizzazione del purpose non solo consente alle aziende di affrontare meglio le sfide del presente, ma offre anche una base solida su cui costruire un futuro sostenibile, allineando gli obiettivi di business con il valore creato per gli stakeholder e la società, garantendo resilienza e successo nel lungo periodo”. Eppure, per il 59% degli intervistati in azienda non esistono momenti o pratiche ricorrenti dedicati al purpose, necessari invece per renderlo parte integrante della cultura aziendale, a livello sia formale che operativo.

L’obiettivo dell’Osservatorio Purpose in Action della School of Management del Politecnico di Milano, nato in collaborazione con OpenKnowledge – Gruppo BIP, BVA Doxa e Tiresia PoliMi, è proprio quello di offrire maggiore chiarezza sul tema e fornire modelli operativi concreti che possano guidare le organizzazioni nella formalizzazione, integrazione e misurazione del purpose. Infatti, nonostante la crescente rilevanza che questo concetto sta acquisendo a livello di gestione aziendale, il purpose è ancora soggetto a una serie di problemi e tensioni che ne ostacolano l’effettiva attuazione nelle imprese, come la mancanza di una definizione unanime, la percezione che possa essere solo una moda manageriale, il rischio che venga sottovalutato e comunicato in modo superficiale, lasciando il profitto come priorità assoluta.

“Il purpose dell’impresa è definito come ‘la ragione d’essere di un’azienda e la sua aspirazione a perseguire un obiettivo che vada oltre la semplice ricerca del risultato economico-finanziario’ – spiega Federico Frattini – : implica la creazione di valore non solo per gli stakeholder diretti dell’azienda, ma anche per la società nel suo complesso e per l’ambiente. Per essere efficace, dunque, deve avere quattro caratteristiche: essere sfidante, compatibile, riferirsi a una identità e posizione di mercato uniche e distintive, essere ispirazionale per stakeholder interni ed esterni. Il purpose aziendale comprende tre dimensioni chiave – strategica, culturale e socio-ambientale – che vanno equilibrate attraverso un’interpretazione attenta e un’azione deliberata da parte dei manager, pena l’emergere di tensioni”.

Un ulteriore aspetto per valutare lo stato dell’arte del purpose nelle imprese italiane riguarda i processi di misurazione. Solo il 17% dei manager afferma che nella propria azienda, in genere di grandi dimensioni, il purpose viene monitorato tramite indicatori specifici, mentre per il 36% viene sì misurato, ma in modo non sistematico, e questo accade prevalentemente nelle medie imprese. Diventa quindi urgente implementare sistemi di misurazione coerenti, che possano verificare l’efficacia nel lungo termine: i benefici legati alla presenza del purpose risultano più evidenti in ambiti come la motivazione dei dipendenti (citata dal 51% dei manager), le relazioni esterne e la reputazione (46%). Al contrario, il purpose è meno associato al raggiungimento diretto degli obiettivi di business (solo il 36% dei manager lo afferma), suggerendo che viene percepito come un elemento che promuove coesione interna e costruisce una reputazione solida all’esterno, ma non ancora come uno strumento direttamente collegato al risultato economico. Tra le principali difficoltà che le aziende incontrano nell’integrare il purpose nelle loro realtà, infatti, c’è la percezione che sia qualcosa di astratto, oltre alla mancanza di allineamento e comunicazione.

Ma quali sono le pratiche di innovazione, strategia e gestione delle risorse che più contribuiscono al rinnovamento strategico delle imprese italiane? Le aziende più efficaci sotto questo aspetto sono quelle che utilizzano il purpose per favorire la collaborazione intergenerazionale e per orientare le decisioni in modo che le risorse aziendali siano allineate al purpose stesso. Queste imprese fanno dell’innovazione uno strumento chiave per affrontare le sfide emergenti, comprese quelle che possono nascere proprio dalla formalizzazione del purpose, e sono capaci di creare un legame solido tra il purpose e i prodotti o i servizi offerti sul mercato, assicurando una coerenza strategica che rafforza la loro identità e distintività.

Altre pratiche, pur essendo anch’esse associate a un elevato potenziale di rinnovamento strategico, sono perseguite meno frequentemente, ad esempio quelle concentrate sul dominio strategico: solo poche aziende, infatti, sono disposte a rinunciare ai profitti immediati in favore di obiettivi più elevati legati al purpose.  Allo stesso modo, sono ancora in numero esiguo le aziende che si impegnano a trasformare le loro operazioni in funzione del purpose. Esistono quindi opportunità di crescita non sfruttate: sbloccandole, le imprese potrebbero puntare su una crescita più sostenibile e significativa.

Analizzando poi il rapporto tra purpose e impatto, si evidenzia come venga attribuita particolare rilevanza agli obiettivi di sviluppo sostenibili orientati al miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita dei dipendenti: lavoro dignitoso (citato dal 32% dei rispondenti), parità di genere (31%), salute e benessere (30%), produzione responsabile (26%) e sviluppo di infrastrutture innovative (26%).

Il purpose aziendale può avere diversi livelli di integrazione (quanto “forte” è sentito dagli stakeholder interni) e di trasversalità (quanto riesce a superare le barriere legate a generazioni, geografie, funzioni, livelli gerarchici): il Purpose Stress Test è appunto uno strumento per valutarne e rafforzarne la chiarezza, l’allineamento, la risonanza, la persistenza e la condivisione, permettendo di individuare segnali di precarietà e di intraprendere azioni correttive affinché sia diffuso e compreso trasversalmente.

La misurazione del purpose richiede poi un approccio su due fronti: interno, per valutare quanto sia realmente compreso e integrato nell’organizzazione, ed esterno, per analizzare i concreti impatti sociali, economici e ambientali generati, dunque la sua efficacia nel creare valore reale. Misurare l’impatto genera benefici strategici per l’impresa: orienta le decisioni per massimizzare efficacia e coerenza con il purpose aziendale e facilita il dialogo e la gestione dei conflitti tra i diversi stakeholders.

Partner di questa prima edizione dell’Osservatorio sono Beta 80 Group, Edenred UTA Mobility, ELIS, E.ON Italia, Haier Europe, Sandoz, Vodafone e Zambon. Patrocinatore, la Fondazione Conscious Business.

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Redazione