In passato, il sogno di tutti i top manager (e di quelli che aspiravano ad esserlo) era quello di essere pieni di impegni, possibilmente in varie città del mondo, saltando da un aereo all’altro. L’ufficio doveva essere “grande”, anzi nei primi anni ’90 “il vero boss” aveva in ufficio un tavolo per le riunioni, così che le dimensioni dell’ufficio fossero quelle di un monolocale. Qualche top executive (e non sto scherzando) aveva un angolo cottura di fianco al tavolo delle riunioni, per non interromperle all’ora di pranzo e prepararsi qualche “piattino” al volo. Il massimo l’ho visto personalmente a Londra, quando presi parte ad una riunione con la CEO di Pearson Plc, Marjorie Scardino, che aveva una cucina con chef al piano in pianta stabile. Quando comparvero i primi cellulari, la prima (falsa) motivazione per comprarne uno era poter essere sempre raggiungibile dall’ufficio. La massima espressione del proprio status era avere segretarie (i più evoluti le chiamavano assistenti) che chiamassero in continuazione per riferire telefonate, nuovi appuntamenti e altro. Sono passati decenni e oggi, sempre più, gli executive delle grandi multinazionali non hanno un’assistente personale e hanno uffici sempre più piccoli, quando li hanno. Più spesso, lavorano in spazi condivisi e in tutti i luoghi che permettano una connessione (bar, lobby di hotel, stazioni, aeroporti, ecc.). Gli appuntamenti se li prendono da soli e il cellulare è solo un invadente strumento di comunicazione. Domanda, cosa è successo? La stessa cosa che successe quando carta a carbone e macchina da scrivere furono sostituite dai primi computer, oppure quando buona parte della corrispondenza commerciale smise di essere inviata per posta tradizionale e cominciò a circolare via fax (e prima ancora via telex). L’evoluzione del lavoro è passata attraverso gli elaboratori di testi, i computer desktop, i computer portatili, i tablet, per vedere dal 2000 un’accelerazione straordinaria con l’avvento della crescente ubiquità dell’accesso wireless, del cloud computing, degli smartphone e dei social media. Ora la domanda è: siamo diventati più “intelligenti” e quindi abbiamo adattato alle nostre nuove esigenze la tecnologia o la tecnologia ha trovato nuove soluzioni e noi siamo cambiati, diventando più “intelligenti” per adattarci ad esse? Il tanto decantato “smart working” in che misura è smart e per chi?

Prima della metà del IV° millennio avanti Cristo, cioè prima che i Sumeri inventassero la ruota, si suppone che gli esseri umani trascinassero con corde i materiali e i carichi in genere. Solo attorno al 3500 a.C. i Sumeri inventarono la ruota, quindi carriole e carretti. Ecco il primo (straordinario) esempio di smart working!!!

Quando applichiamo tutte le nostre energie cerebrali per produrre il massimo risultato, utilizzando il minimo sforzo fisico, allora siamo in pieno smart working. Quando si lavora duramente, ma solo fisicamente, e non si è concentrati su come raggiungere il proprio obiettivo al meglio, le performance sono modeste. È lavorando intelligentemente e duramente che si ottengono i grandi risultati. Il grande equivoco, che è stato alimentato ad arte, è che lo smart working faccia lavorare meno. Falso. Lo smart working aumenta la capacità di concentrarsi sulla qualità del proprio output, piuttosto che sulla quantità, con l’effetto “magico” di lavorare di più, con meno fatica.

Quando i Sumeri applicarono la tecnologia della ruota non smisero di lavorare, ma si affaticarono molto meno e costruirono molto di più. Purtroppo, a quei tempi mancava il diritto al tempo libero, quindi i lavoratori non se ne giovarono in termini di qualità della vita.

Essere un “lavoratore intelligente” consente di risparmiare molto tempo, poiché è possibile trovare modi e mezzi per ridurre il proprio lavoro, utilizzando modalità logiche e innovative per raggiungere i propri obiettivi. Ma, attenzione, il lavoro intelligente è il frutto del duro lavoro. Solo quando si lavora sodo si raccolgono le competenze e le conoscenze per comprendere il lavoro che si sta facendo e migliorarlo in modo intelligente. Il successo e una migliore qualità della vita sono il risultato di un “duro lavoro intelligente”. Ora dovrebbe essere più chiaro che lo “smart working” non è la video call con Zoom o Skype, è un modello culturale. Se un manager continua a chiedere all’assistente di stampargli le email, il problema non è lo smart working, ma lo smart management. È sulla base di queste premesse che si ottengono indicazioni su quale piattaforma utilizzare o che ERP o CRM implementare. Se lasciamo che sia solo la tecnologia a porsi le domande e a darsi le risposte, siamo fritti. La “sfera problematica” appartiene all’attività indagatrice della nostra intelligenza. Problem identifying e problem solving devono essere le attività che ispirano e indirizzano le applicazioni tecnologiche, e non viceversa.

Ma, come dicevo, il tema è culturale, e solo attraverso un cambiamento in tal senso si può immaginare un’autentica evoluzione. I primi passi sono “cerebrali” e non tecnologici. Ecco da dove vi consiglio di iniziare per implementare la “cultura del lavoro intelligente”:

  1. Promuovere un modello di lavoro collaborativo tra individui, team, partner esterni, fornitori, clienti, ecc.;
  2. Incrementare il livello dei servizi interni ed esterni attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie che aumentino l’efficienza;
  3. Promuovere ed incentivare la flessibilità mentale. Diffondere il valore di essere costantemente aperti a nuovi modi di lavorare, evitando la tentazione di cercare di “congelare” lo Smart Working in una formula rigida o prescrittiva;
  4. Porre l’enfasi sulla gestione per risultati, piuttosto che sulla gestione per presenze;
  5. Organizzarsi in spazi condivisi e con risorse condivise;
  6. Aumentare l’empowerment e l’autonomia del personale, per massimizzare i benefici derivanti dai nuovi stili di lavoro;
  7. Sfruttare le nuove tecnologie per aiutare i dipendenti a raggiungere un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata;
  8. Sviluppare una “cultura dell’apprendimento” che utilizzi le nuove tecnologie per aiutare i dipendenti, ovunque si trovino, a sviluppare le loro competenze e capacità e ad avanzare nella loro carriera.

Chiudo con una frase che ho letto tempo fa. È in inglese e me ne scuso, ma è talmente efficace così, che non me la sono sentita di profanarla traducendola:

“Before you work smart, work hard but if you only work hard, and not smartly, you may end up working only hard for the rest of your life”.

Giuseppe Andò

C-level, Executive, Team & Career Coach. Associate Coach Marshall Goldsmith Stakeholder Centered Coaching. Member of Board EMCC Italia (European Mentoring & Coaching Council).